La Cina è un’economia di mercato? Ecco perché non è vero

 

Pil Cina

Conseguenze disastrose se la Cina venisse dichiarata “economia di mercato”

Status di economia di mercato o no per la Cina: questo è il dilemma. E mentre la questione è al centro delle cronache economiche e politiche l’Italia trema, perché è stato calcolato che, nel peggiore degli scenari possibili, il Belpaese perderebbe qualcosa come oltre 400mila posti di lavoro nel caso in cui al Paese asiatico (nel grafico l’andamento del Pil in dollari 2006-2014) fosse riconosciuto questo status.

La Cina economia di mercato?

Per capire perché il dilemma economico sia al centro delle discussioni politiche e diplomatiche, oltre che economiche, basti pensare ai cinquemila lavoratori europei che a febbraio hanno sfilato a Bruxelles opponendosi al riconoscimento della Cina come economia di mercato e, anzi, chiedendo alla Commissione europea protezione commerciale contro la concorrenza sleale dei Paesi emergenti. Protagonista della protesta il settore dell’acciaieria, considerato il più colpito dalle pratiche commerciali del colosso asiatico, accusato di vendere all’estero a prezzi più bassi di quelli che pratica in patria (in gergo: dumping). Il motivo della protesta è che con il riconoscimento dello status crollerebbero tutte le barriere che l’Europa ancora può opporre alla concorrenza asiatica.

Il protocollo di accesso al Wto

Il punto di scontro è la sezione 15 del protocollo di accesso al Wto (World trade organization), che consente ai paesi membri importatori di decidere se la Cina possa essere considerata una economia di mercato in termini di comparabilità di prezzi e di margini di dumping, espressione, quest’ultima, con cui si indica la differenza fra il prezzo che l’esportatore applica a un prodotto nel mercato di provenienza e il prezzo che lo stesso esportatore applica sul mercato dell’Unione europea. Un prezzo viziato dalle molte più lasche regole sul lavoro nero e sul lavoro minorile e su un costo del lavoro decisamente inferiore a quello medio occidentale.

A breve, l’11 dicembre del 2016, scadranno alcune disposizioni di questo protocollo 15, la cui formulazione, considerata ambigua, presta il fianco a diverse interpretazioni. In sintesi estrema, però, se si decide di fare prevalere l’interpretazione che favorisce il riconoscimento di economia di mercato alle aziende cinesi, ci saranno conseguenze enormi a livello di norme antidumping e di regolamentazione europea. Ma soprattutto, mette in guardia chi teme il riconoscimento dello status alla Cina, ci saranno conseguenze negative sul mercato del lavoro e, in generale, sull’economia dell’area del Vecchio continente, Italia compresa.

Le ragioni di Pechino

I motivi per cui il colosso asiatico vuole il riconoscimento dello status di economia di mercato sono stati spiegati in un recente intervento dell’europarlamentare italiano del Ppe, Massimiliano Salini, ripreso sul sito Formiche.net. “La Repubblica Popolare Cinese – sostiene Salini – sta esercitando pressioni sulla Commissione Europea affinché le venga riconosciuto lo status di economia di mercato perché l’Unione Europea rappresenta uno dei tre principali attori della Comunità Internazionale, insieme a Usa e, appunto, Cina nell’ambito della regolamentazione dei rapporti di politica commerciale all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio”. Ed entrare a fare parte di questo sistema diventa tanto più importante quanto più l’economia del paese asiatico conferma di tirare il freno. A fine gennaio, l’Ufficio nazionale di statistica ha annunciato che il Prodotto interno lordo (Pil) è cresciuto del 6,9%, in calo dal +7,3% del 2014.

Dal 2001, sintetizza l’europarlamentare Salini, “la Cina è membro del Wto e l’organizzazione ha stabilito un periodo di 15 anni perché la Repubblica Popolare Cinese, oggi riconosciuta come “economia in transizione”, attui nel mercato interno una serie di riforme di apertura della propria economia al modello della libera concorrenza”.

Ma l’economia cinese non è libera

Di sicuro oggi la Cina non può essere considerata un’economia di mercato perché nei principali settori si avverte in maniera evidente la “longa manus” dello Stato. Eppure, come mette in evidenza Bernard O’Connor, “visiting professor” all’università di Milano, nel 2001, al momento dell’ingresso nel Wto, la Cina aveva preso tutta una serie di impegni messi nero su bianco nel protocollo di accesso. E tra questi c’era proprio quello di lasciare che i prezzi dei beni fossero determinati dalle forze di mercato. Peccato che però l’impegno non sia mai stato rispettato. A supporto di questo argomento, O’Connor elenca il complesso sistema di controllo dei prezzi in Cina. Basti pensare ai ben 71 piani quinquennali tuttora in vigore attraverso i quali lo Stato esercita il controllo sull’economia. O’Connor, non bastasse, elenca i punti chiave che forniscono la certezza “legale” che il paese asiatico non sia un’economia di mercato sulla base delle disposizioni europee. Non solo, infatti, le risorse economiche non vengono allocate dal mercato ma il settore finanziario non è aperto, non ci sono regole significative su fallimenti e concorrenza e non c’è una corrispondenza tra corporate governance, vale a dire chi comanda dentro alle aziende, e azionisti. L’unico, piccolo passo, che è stato compiuto in direzione di un’economia di mercato è la rimozione degli scambi economici sotto forma di baratto.

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Il rischio, insomma, sembra essere quello di concedere lo status di economia di mercato a un paese che, di fatto, economia di mercato non è. Da qui i timori espressi dall’europarlamentare Salini: “Il problema è che se questo riconoscimento venisse concesso senza l’effettiva attuazione delle riforme le conseguenze per la già fragile economia europea e italiana sarebbero gravissime perché si annullerebbe di fatto la competitività delle nostre industrie manifatturiere”.

Trade deficit Cina

Deficit commerciale dell’Unione europea con la Cina 2000-2015. Fonte: Economic Policy Institute

Le conseguenze sul lavoro in Europa

A stimare le implicazioni economiche della concessione dello status alla Cina, sempre in occasione del workshop di Bruxelles, è stato il professore Robert Scott, che lavora nella divisione ricerca dell’Economic policy institute. Scott non ha fatto altro che fornire un aggiornamento del suo precedente studio dal titolo di per sé già eloquente: “La concessione unilaterale dello status di economia di mercato alla Cina metterebbe milioni di posti di lavoro a rischio nell’Unione europea”.

Scott ha utilizzato due modelli che giungono a conclusioni simili: tra gli 1,75 e i 3,49 milioni di posti di lavoro sarebbero a rischio nei prossimi 3-5 anni se l’Ue concedesse lo status al paese asiatico. Per trarre queste conclusioni, Scott muove dall’impennata delle importazioni dalla Cina all’Ue e, di conseguenze, del nostro deficit commerciale, che non a caso è quadruplicato dal 2000 al 2015 e a oggi è stimato, come mostra il grafico sopra, intorno a 183 miliardi di euro. La Cina, dal canto suo, nota sempre Scott, ha accumulato capacità in eccesso in diverse industrie chiave: acciaio, ma anche alluminio, vetro, carta, biciclette e motoveicoli. Si tratta di settori che, da soli, rappresentano circa 2,7 milioni di posti di lavoro in Ue.

Cina economia di mercato

Evoluzione dell’occupazione nei settori vulnerabili a un’impennata delle importazioni sussidiate dalla Cina se la Ue le concedesse lo status di economia di mercato. Previsioni elaborate sulla base dei dati economici del 2011-2012. Fonte: Economic Policy Insitute

La Cina mette a rischio molti settori industriali

Nel dettaglio, il maggior numero di posti di lavoro a rischio è nel settore dei motoveicoli, con 1,2 milioni di unità; seguono a distanza la carta e i prodotti di carta, con 647mila unità, mentre per la ceramica e l’acciaio si stimano rispettivamente 338 e 350mila unità, e si scende a 80mila per l’alluminio e a 28mila per il comparto delle biciclette.

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Posti di lavoro a rischio Paese per Paese in caso di concessione alla Cina dello status di economia di mercato. I dati si riferiscono al 2015. Fonte: Economic Policy Institute.

L’Italia tra i paesi più colpiti dalla concorrenza cinese

Lo studio di Scott entra anche nel dettaglio dei paesi europei che potenzialmente sarebbero più colpiti in termini di occupazione dal riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato. In cima per numero di posti di lavoro a rischio c’è la Germania, con un intervallo compreso tra 319.700 e 639.200, seguita a stretto giro dall’Italia, con una stima tra 208.100 e 416.200, mentre si calcola 193.400-386.800 per il Regno Unito e 183.300-366.600 per la Francia.

Cina economia di mercato

Le conseguenze economiche della concessione dello status di economia di mercato alla Cina. I dati si riferiscono al 2015. Fonte: Economic Policy Institute.

L’impatto del dumping cinese sul Pil

Dietro ai posti di lavoro a rischio, come detto stimati nel complesso da Scott tra 1,75 e 3,49 milioni, si nasconde un aumento di importazioni di prodotti manifatturieri dalla Cina stimato in un intervallo tra 71,3 e 141,5 miliardi di euro. Ma l’impatto sull’occupazione della Cina economia di mercato non è certo l’unico. Come altra principale conseguenza della mossa, che ha una indubbia valenza economica e politica, Scott calcola anche una riduzione del Pil dell’Unione europea tra i 114,1 e i 228 miliardi di euro, ossia tra l’1 e il 2 per cento.

Tanto per rendersi conto dell’impatto, serve ricordare che, in base ai dati forniti dall’Eurostat, nel 2015 il Pil dell’Ue a 28 paesi è cresciuto dell’1,9%, mentre quello dell’area dell’euro ha fatto segnare un progresso dell’1,6%. In altri termini, ipotizzando un Pil dell’Ue invariato per i prossimi anni, la trasformazione della Cina in economia di mercato potrebbe rischiare da sola di azzerarlo.

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