Bail in delle banche europee, cosa rischia il Monte dei Paschi

Dal primo gennaio gli istituti non sono più salvabili con soldi pubblici. Davvero?

Il bail in, cioè il salvataggio delle banche secondo le nuove regole in vigore dal primo di gennaio, non è la fine del mondo: tanti paesi europei lo hanno già sperimentato, tranne la Germania, che si è saputa muovere in tempo. Eppure, il governo di Matteo Renzi è impegnato da molti giorni ormai in una serrata trattativa con l’Europa finalizzata proprio a scongiurare l’applicazione puntuale di questo regolamento nel caso di Banca Monte dei Paschi di Siena. Quest’ultimo è l’istituto bancario che, secondo indiscrezioni sempre più insistenti, non dovrebbe superare gli stress test dell’Autorità bancaria europea (Eba) i cui risultati saranno annunciati il 29 luglio.

Prima dell’introduzione delle regole del bail in, tuttavia, alcuni Paesi, dal 2012, sono riusciti a salvare alcune proprie banche senza far pesare questo su azionisti, obbligazionisti e correntisti. Sono quelli indicati in rosso nella mappa. Tra questi casi c’è anche Mps, che è stata salvata dal crack attraverso l’acquisto da parte dello Stato di obbligazioni emesse dall’Istituto.

Che cosa è il bail in bancario

Il bail in prevede che in caso di difficoltà un istituto di credito venga salvato, in ordine di importanza, dai suoi azionisti, dagli obbligazionisti subordinati, dagli obbligazionisti non subordinati purché non garantiti, e con i soldi dei correntisti con la parte eccedente i 100mila euro. Il bail in, dunque, si contrappone al bail out perché quest’ultimo prevede il salvataggio delle banche con soldi pubblici, ossia dei contribuenti (vedi la mappa), mentre con le nuove regole a rimetterci sono coloro che hanno investito nella banca secondo la tipica gerarchia del rischio (appunto azioni, obbligazioni subordinate, ecc.).

Il Monte dei Paschi è a rischio bail in

Nel caso di Monte dei Paschi l’oggetto della contesa, vale a dire lo scoglio su cui da giorni si è incagliata la trattativa di Renzi con la Commissione europea, è rappresentato dagli obbligazionisti subordinati: l’applicazione pedissequa del bail in richiederebbe un sacrificio di questa classe di investitori e solo dopo questo passaggio si potrebbe ragionare sulla possibilità di fornire una garanzia pubblica sulla ricapitalizzazione di cui l’istituto senese sembra abbia bisogno.

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Il problema è che, complici i collocamenti selvaggi di titoli bancari effettuati dagli stessi istituti di credito negli anni in cui la crisi era lontana, sono troppi i piccoli investitori che si trovano in portafoglio obbligazioni subordinate di Mps. Si calcola che, su circa 6 miliardi di valore originario complessivo, la metà circa sia in pancia a investitori al dettaglio e l’altra metà a investitori professionali. Il problema di Renzi, quindi, è innanzi tutto politico: col referendum costituzionale in vista, non può certo permettersi di scontentare i piccoli obbligazionisti subordinati di Mps, che, in caso di applicazione del bail in, rischierebbero di trovarsi con il valore dell’investimento fortemente ridotto se non addirittura azzerato (ma c’è anche chi ipotizza, nella migliore delle ipotesi, la conversione in azioni).

Banche a rischio, i casi precedenti

Eppure non sono pochi i casi in cui, all’interno dell’Unione monetaria, è già stato applicato il bail in, associandolo, in alcune situazioni, anche a una certa dose di aiuti di Stato. Che, sia chiaro, non sono vietati a prescindere; semplicemente, devono essere abbinati a una qualche forma di sacrificio di azionisti e/o obbligazionisti. Uno di questi Paesi è Cipro, dove è stato creato un fondo “di risoluzione” da 175 milioni di denaro pubblico per salvare le banche cooperative dopo che le azioni, detenute al 99% dallo Stato, sono state completamente sottoposte a bail in. Il 5 ottobre 2015 è stata la volta della danese Andelskassen Jak Slagelse, che è stata “risolta” con le nuove normative e trasferita a una banca “ponte” dopo che l’investimento dei creditori subordinati ma anche di quelli ordinari non garantiti è stato portato a zero. I depositi sono invece stati preservati dal fondo danese di tutela creato ad hoc.
E come dimenticare la Grecia, dove il 17 aprile del 2015 Panellinia Bank è stata “risolta” trasferendo attivi e passivi selezionati a Piraeus Bank? Gli azionisti ordinari, soprattutto banche cooperative greche, e privilegiati, ossia la Repubblica del paese, hanno dovuto subire il bail in.

Che cosa è successo in Italia

Ma non si può parlare di banche in risoluzione senza ricordare cosa è avvenuto lo scorso autunno in Italia con Banca Marche, Banca Etruria, Cariferrara e Carichieti. Tutte le attività e passività, a eccezione del capitale azionario e dei debiti subordinati, delle quattro banche sono state trasferite a una banca ponte o “good bank”.

bail in

Il capitale azionario e i debiti subordinati sono stati esclusi e questo ha portato al fatto che gli investimenti di azionisti e obbligazionisti subordinati sono stati completamente azzerati, con tutte le polemiche che ne sono derivate (e che spiegano lo scetticismo di Renzi a ripetere il copione in Mps, da sola molto più grande di tutte e quattro le banche messe insieme).

“Azionisti e obbligazionisti subordinati – riporta il documento del Parlamento Europeo che fa il punto della situazione alla vigilia degli stress test dell’Eba – sono stati totalmente sottoposti a bail in (il loro investimento è stato cioè azzerato), operazione particolarmente controversa in Italia perché molti piccoli investitori avevano sottoscritto strumenti subordinati pensando di comprare prodotti sicuri“.

Da notare che l’Italia è il paese dove le obbligazioni bancarie subordinate sono più diffuse tra il pubblico al dettaglio. Dopodiché, il fondo di risoluzione italiano, finanziato dalle altre banche in base alla grandezza di ognuna, ha iniettato 3,6 miliardi nella good bank per assorbire le perdite e ricapitalizzare.

Le banche tedesche sono fuori pericolo

Anche la Germania ha di recente salvato una propria banca in difficoltà, ma lo ha fatto con denaro pubblico e non seguendo le regole del bail in. Si tratta di Hsh Nordbank (vedi mappa), che aveva domandato aiuto già nel 2013, prima cioè che entrassero in vigore le regole sul cosiddetto burden sharing, che impone sacrifici ad azionisti e obbligazionisti subordinati.

Nel giugno del 2013 la Commissione Ue ha dato via libera al salvataggio della banca tedesca utilizzando garanzie statali. Nell’ottobre del 2015, invece, la commissaria europea alla Concorrenza Margrethe Vestager ha formalmente annunciato il raggiungimento di un accordo di principio per la conclusione della procedura di aiuti di Stato a Hsh Nordbank. Da ricordare che quest’ultima è per l’85% del capitale in mani pubbliche: una situazione molto differente da quella dell’italiana Mps, della quale il Tesoro ha il 4% ma solo a causa del rimborso in azioni degli interessi sulle obbligazioni Monti bond.

Fatte tutte le dovute proporzioni, però, è evidente che i tedeschi si sono mossi in tempo per mettere in salvo i propri istituti senza dovere applicare il bail in, mentre gli italiani si sono ridotti all’ultimo momento. Ne sa qualcosa Renzi, che sta cercando disperatamente di trovare la quadra sul Monte dei Paschi.

I dati si riferiscono al: 2016

Fonte: Parlamento Europeo

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